Quando il messaggio pubblicitario modifica l’immaginario collettivo

Quando il messaggio pubblicitario modifica l'immaginario collettivo

Proprio mentre tornavo dalle sfilate di Parigi, fatte di lustrini, paillettes e ricami, vengo catapultata nella realtà italiana, fatta di bambine e pesche.

Approfondendo l’argomento, si capisce il perché del clamore suscitato dallo spot di Esselunga, tanto da spingermi alla riflessione su alcune correlazioni fatte in ambito di società e moda con alcuni docenti universitari in questi giorni.

Quando il messaggio pubblicitario modifica l’immaginario collettivo, si assiste anche ad un cambio delle tendenze.

Moda e passerelle, traduzione di una società che cambia.

La moda ha una grandissima forza comunicativa, questo lo si sa, ciò che mio avviso è sempre più evidente è che le sfilate ed il mercato stiano raccontando due storie diverse.

La società appare contraddittoria anche nella rappresentazione delle tendenze femminili, che sempre più si aprono all’inclusione, con abiti in alcuni casi, indossati e venduti anche in taglie da uomo. Non ci sono direzioni ben delineate, c’è una moda frivola ed al contempo una moda sobria, c’è la voglia di ripartire, ma anche una coscienza sociale. Le tendenze quindi non raccontano più un immaginario univoco, ma quello di una società eterogenea. Fatta di diversità, pronta ad includere anche l’imperfezione nel suo oversize.

Questo è in effetti sinonimo di una società che cambia e che vuole cambiare, che è forse pronta a vedere e sentire una certa coscienza.

Spot Esselunga, la bambina con la pesca segna una svolta creativa nella comunicazione

Lo spot, di ben due minuti, di Esselunga, mostra una bambina che dicendo un’innocente bugia al papà, gli porge una pesca, spiegando che gliela manda la mamma, la scena si focalizza sullo sguardo triste di chi sta soffrendo una separazione. Vuole richiamare il sentimento empatico verso qualcuno che forse è triste, ma che per questo fa veramente parte della nostra società.

Questo spot è sicuramente in controtendenza rispetto a tutti i messaggi pubblicitari positivi e felici visti sino ad ora, segna un punto di rottura e di ripartenza, evidenzia la voglia di coscienza e verità, dove non è tutto perfetto, ma che comunque va bene così, perché almeno è vero.

Su questa riflessione la società si divide in due, fra chi accusa lo spot di poca sensibilità e arretratezza, e chi ne legge semplicemente l’innovazione comunicativa.

Quello che è lecito pensare, è che se questo spot ci fa discutere e riflettere, vuol dire che è abbastanza ipotizzabile in effetti, che una bambina vorrebbe nuovamente poter condividere una famiglia e potrebbe essere nostalgica per questo. Tutto ciò però non fa di lei per forza una bambina problematica, ma che probabilmente sta affrontando le prime difficoltà della vita come molti suoi coetanei oggi.

Quando il messaggio pubblicitario modifica l’immaginario collettivo si assiste anche ad un cambiamento di pensiero; in questo caso una certa imperfezione viene accettata, è la tristezza, questo empatizza con lo spettatore, lo umanizza.

Non sentirsi esclusi e riconoscere il dolore e la sofferenza demonizza il problema stesso che vive la società.

Il punto davvero importante, è che la sofferenza e la tristezza negata sui social e sui messaggi pubblicitari fino ad ora, fanno parte invece di un importante presa di coscienza. Quella della vita vera che può essere anche triste e che se rappresentata in modo etico, educa all’inclusione e all’empatia, alla maturità ed alla realtà della vita.

Promuovere solo bellezza ed agio, ha il pericoloso aspetto di indurre false aspettative di felicità e successo spesso irrealistiche, traducendosi, per i più giovani, in un ansia generale di inutile perfezione da raggiungere.

La moda è anche cultura, non dimentichiamolo.

Vendere non basta e la comunicazione dovrebbe essere responsabile.

Creando collezioni, per circa venti anni, ho letto i segnali che mi circondavano, cercando di capire come avrebbero voluto sentirsi e vedersi le persone fra un anno, commutarle in un prodotto commerciale e terminare così la “missione”.

Quello che è molto cambiato, è il disequilibrio fra ciò che è la richiesta commerciale ed il sentire del creativo. Benché la contraddittorietà faccia parte di quest’epoca, ciò che credo sia necessario comprendere è che oggi si assiste ad un appiattimento del prodotto, del suo valore creativo e comunicativo, dato proprio da un’analisi fatta a senso unico. Rendendo poco interessante tutto.

Desensibilizzare dunque la società con una comunicazione dove è tutto bello e necessario, dove anche se le bombe ci sono, sono lontane, porta a fare in modo che ciò che si vede al telegiornale sia alla stregua delle serie di Netflix, non disturbando così lo shopping. Distogliendo l’attenzione sul vero valore dei nostri acquisti.

Compito della moda e della comunicazione, dovrebbe essere fare cronaca di un mondo vero,  esibire una certa coscienza anche commerciale e includere ciò che è diverso.

Sarebbe importante limitare l’acquisto compulsivo, incoraggiare l’empatia e la cultura prima di tutto, sostituendola a quella falsa perfezione o di finta felicità costituita solo per fare una foto, spesso con la borsa nuova, anche se prestata.

La moda non è solo perfezione e ricchezza, è traduzione della società prima di tutto. Si può dare una preferenza, non solo per sembrare tutti ricchi e felici, ma potremmo voler essere anche un po’ imperfetti, magari con meno cose da fotografare, ma che ci rappresentano si più.

Perché ha più valore la storia di una borsa, chi l’ha fatta e chi l’ha pensata, di una Storia di 24 ore di Instagram, è questo il senso vero della questione.

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